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sabato 10 novembre 2012

"Futuro Remoto" - dedicato a PPP

(Estratto del mio racconto "Futuro Remoto" letto durante il secondo appuntamento di commemorazione a Pier Paolo Pasolini ad Ostia, iniziativa coordinata dall'associazione "Mare in Vista" - 10 novembre 2012)


foto di paula de jesus

[…]
Lì, in quelle case, il vecchio giornalista aveva visto passare gente di ogni razza. Conosceva uno ad uno gli abitanti e mai aveva visto la tristezza albergare nei loro occhi. Ognuno con il proprio sguardo, con la propria storia. Quelli segnati da un passato ambiguo, quelli “con la coscienza alla luce del sole”, quelli dello scalino e col tatuaggio, quelli segnati dalla droga. E insieme a quelle facce aveva sentito gli spifferi tra le mura. Voci che sussurravano di fuorilegge a buon prezzo e che si inseguivano tra le casupole di cemento e gli sguardi omertosi di chi li abitava, immersi in quelle pozzanghere alla ricerca di un vivere decente, in cambio di un male senza fondo. Tutti segnati dal marchio dell’indifferenza. Come se abitare laggiù fosse una colpa. Una medaglia appiccicata a forza sui quei volti dal bel mondo dei palazzinari già pronti a far lotteria di quel pezzo di terra da innalzare a sacrificio, dove albergava la disperazione di anime mai arrese. Il vecchio pensò al supplemento di forza quotidiana degli inquilini, in­trappolati da un fatalismo urbanistico decisamente crudele, esseri umani che uscendo in strada dovevano vedersi ogni giorno lo stesso panorama, tetro e desolante, tanto lontano dagli affari e dal lusso del porto eppure tanto vicino da sentirne i profumi e odorare la ricchezza. Ed ora la notizia dello sgombero imminente che aleggiava sulle loro teste come una nera promessa.
Cosa poteva fare per cambiare quel destino deplorevole e patetico, lui che considerava la memoria uno dei doni più preziosi? Forse l'arte, poteva essere il rimedio più consono alle sue capacità per sfuggire all'oblio, concluse mentre osservava il sole che scendeva, lasciando dietro di sé la luce pallida del pomeriggio invernale.
Lasciò l’asfalto, scegliendo una stradina di fango che si apriva tra due alti muri di sterpi che spuntavano minacciosi. Arrivò davanti a un cancelletto di legno col catenaccio. Incurvato, armeggiò, chiavi in mano, con la serratura. Poi, lento, come se non volesse vedere la storia chiusa in quel monumento, oltrepassò il cancello.
Entrò in una spe­cie di giardino bordato da macchia pallida di canne lacustri e fitto di cespugli e alberi di eucaliptus. Via via che si inoltrava, l'aria si riempiva di un odore di acqua stagnante, di foglie morte, di erbe in decomposizione. Intorno non c’era altro che un terreno fatto di saliscendi gibbosi, terra e recinzioni artefatti con incastri di rami. Un pino agitato dal vento spiccava solitario dagli arbusti. Alle sue spal­le si agitava il fiume ricacciato indietro dal vento. Lanciava spruzzi di acqua marcia quasi nauseabonda come se, non ancora libero, protestasse per le violenze subite, urlando la sua rabbia per i baratti e le parole volgari spacciate per allori, di chi aveva edificato quell'oasi, tra il cemento e l’acqua. Raggiunse un capanno verniciato di fresco coi vetri rotti. Vi entrò per fumare una sigaretta, per godere della compagnia del whisky o forse semplicemente per ripararsi dal freddo. Si strinse il giaccone e rimase lì con il gran vuoto della campagna, senza un frullare di ali o il suono delle onde sulla battigia.


Si era addormentato appoggiato al monumento del Poeta e aveva sognato. 
Nel silenzio che ora lo abitava, il vecchio sentì di avere la testa piena di parole che riemergevano da un mondo lontano ma non dimenticato. Con gli occhi ancora chiusi, le immagini divennero materia, sia pure in disordine, casuali. Lentamente la scena si animò, riprendendo corpo, trovando la sostanza del monumento, di quel marmo bianco che mai avrebbe sostituito le idee di quell'uomo geniale e vero.
Aveva sognato il suo amico, le sue parole, il migliore scrittore di una generazione di speranze e di illusioni. L’uomo che anni prima era stato massacrato in quella parte di mondo dimenticata da tutti. Pensò che in trentasette anni non aveva scordato quell'incontro, i suoi scritti, il suo pensiero.
Se lo immaginò seduto sugli scogli.
“Qui doveva morire – pensò - Qui dove l’acqua del fiume diventa libera, senza argini”.
Ritornò verso casa fissando la scogliera.  
Il vento faceva oscillare gli alberi e il Vecchio respirò a fondo riconoscendo gli odori, i colori, le sensazioni, le certezze di una possibile appartenenza a un determinato posto e a un tempo che poteva ritrovare anche solo guardando e respirando con golosità un’atmosfera irripetibile e profondamente fusa con il suo stesso essere. Quella era la sua vita, la sua storia, la sua gente che sentiva vicina come quel mare. La spiaggia, la salsedine, l’odore dolce della terra ammantata di umido erano sensazioni accettate e assimilate in blocco dalla sua memoria e dai suoi sensi. Il Vecchio giornalista sembrò annuire: esisteva qualcosa che poteva ancora dire suo, con tenera certezza.
Poi tre lampi nel buio lo riportarono alla realtà. Ambulanze, camionette e una moltitudine di caschi e manganelli che si agitavano in ogni dove. La polizia aveva invaso lo spazio. I lupi, che troppe volte aveva sognato.
Si diresse verso casa cercando un riparo e aprì la finestra per ascoltare il loro arrivo insieme alla notte e al freddo, i loro ululati. Che cosa sarebbe rimasto di quello spazio castigato che portava nel cuore come un amore ricambiato? Che cosa sarebbe sopravvissuto di quel borgo dal quale nessuno voleva fuggire, l'unico posto al mondo dove centinaia di persone avevano avuto una possibilità di sopravvivenza, un piccolo spazio in cui gioire, ridere, e perfino cadere a terra morti o in cui continuare a esistere?
Richiuse la finestra mentre il gelsomino che aveva visto crescere era steso al suolo. Il peggio doveva ancora arrivare. Quel mondo alla fine del fiume si piegava, vinto, al cospetto della volontà di pochi che avevano scatenato la corsa agli ultimi spazi rimasti liberi dal cemento.
Bisognava lottare. Di colpo si sentì ringiovanito. Mise sul fuoco l'ultima macchinetta di caffè e mentre attendeva accese il computer, senza staccare gli occhi dalle finestre battute ciclicamente dai rumori dei lupi, dell'acqua e del vento.
In realtà, la devastazione era iniziata molto prima e la ruspa era solo il feroce esecutore di condanne sancite da altri. Sarebbe rimasto, magari, il ricordo. Poi, portandosi la tazza alla bocca, pensò che avrebbe rimpianto quel sapore amaro, che sapeva di salsedine e sconfitta. 
Quindi aprì la pagina e sul foglio elettronico, di un pulito sintetico e promettente, cominciò a scrivere.
Scrisse del Poeta. Scrisse di quell'uomo che si ostinava a voler mostrare la Storia per quello che realmente era e non per quello che raccontavano i corrotti di professione. Scrisse di una nazione bella e violentata e di tutta una comunità invisibile e nascosta la cui storia sarebbe stata così commovente che neppure il disastro di quel giorno di febbraio e di tutti gli altri giorni dell'anno avrebbero potu­to cancellare. Scrisse per lasciare alla Storia una magia più grande fatta di solidarietà e lotta di chi si opponevano allo scempio. Una storia in cui lui avrebbe descritto quella cronaca di dolore e amore, vissuta in un presente feroce di sfruttamento e che ora affidava alla carta.
Futuro remoto: sì, l'avrebbe intitolata così la sua novella.
Lì in quel luogo dove era stato trucidato il Poeta ancora si potevano sentire le sue parole. Aveva ancora cose da raccontare, da insegnare, nonostante gli anni passati.
Avrebbe chiesto aiuto a lui perché sapeva che il suo pensiero era stato capace di raggiungere quel mondo derelitto e ignorato così da concedergli una possibilità di salvezza.  
Avrebbe iniziato con le stesse parole del Poeta perché da lui tutto partiva, tutto poteva ricominciare: “La nostra speranza è ugualmente ossessa". 

Alcune immagini dell'evento 

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